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Daniela Traverso indaga le inquietudini della post-modernità portando alle estreme conseguenze i cardini fondamentali che “fanno da cerniera” alla nostra società. Mostrando il lato nascosto dietro alle apparenze, l’artista strappa le maschere che costringono la figura femminile nello stereotipo della muta bellezza per restituire voce e presenza al corpo, insieme di fisicità e simbolismo emotivo. Così la bocca diventa smisurata ferita, chiusa e riaperta da denti metallici, inserita fuori dai contorni e quasi giustapposta a proporzioni che sono costantemente sfalsate, sia dalle prospettive schiacciate sia dalla scelta di colori innaturali. Che si tratti di pittura o di fotografia, le tinte sono sempre esacerbate: acrilici tumefatti alla Lucien Freud o stampe su alluminio che rendono l’immagine brillante. Ci si trova di fronte all’anatomia essenziale eppure esagerata impiegata da Hajime Isayama nel ritrarre l’interiorità come parto spaventoso. Allo stesso tempo però ci si muove su un altro asse interpretativo, quello della rapidità. Sono le “Blurred Faces” di Alice Baxter o le nudità sfocate nell’artwork dell’album “Meds” dei Placebo; sono grida che danno l’idea del ritmo mentre i volti si scompongono perdendo e acquisendo particolari da assemblare in una sorta di segnaletica cubista, poliziesca ma anche ascientifica.
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Daniela Traverso indaga le inquietudini della post-modernità portando alle estreme conseguenze i cardini fondamentali che ?fanno da cerniera? alla nostra società. Mostrando il lato nascosto dietro alle apparenze, l?artista strappa le maschere che costringono la figura femminile nello stereotipo della muta bellezza per restituire voce e presenza al corpo, insieme di fisicità e simbolismo emotivo. Così la bocca diventa smisurata ferita, chiusa e riaperta da denti metallici, inserita fuori dai contorni e quasi giustapposta a proporzioni che sono costantemente sfalsate, sia dalle prospettive schiacciate sia dalla scelta di colori innaturali. Che si tratti di pittura o di fotografia, le tinte sono sempre esacerbate: acrilici tumefatti alla Lucien Freud o stampe su alluminio che rendono l?immagine brillante. Ci si trova di fronte all?anatomia essenziale eppure esagerata impiegata da Hajime Isayama nel ritrarre l?interiorità come parto spaventoso. Allo stesso tempo però ci si muove su un altro asse interpretativo, quello della rapidità. Sono le ?Blurred Faces? di Alice Baxter o le nudità sfocate nell?artwork dell?album ?Meds? dei Placebo; sono grida che danno l?idea del ritmo mentre i volti si scompongono perdendo e acquisendo particolari da assemblare in una sorta di segnaletica cubista, poliziesca ma anche ascientifica. È un approccio degno dei film d?avanguardia, laddove è l?ondeggiare dei contorni a farli risaltare sugli sfondi neutri di uno spazio desolante: la scelta del bianco e nero, i toni sporchi di un?ipotetica parete richiamano a un quotidiano universale. E viceversa la saturazione delle sequenze crea una metamorfosi kafkiana e glam in cui il Joker incontra Alice Cooper; l?allungamento entomologico simula la contemporaneità delle espressioni e i rossetti sbavati denunciano la violenza di un travestimento lacerato. (Testo critico di Elena Colombo).
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